Rec. di Mario Micheletti, Filosofia analitica della religione. Un’introduzione storica, Morcelliana, Brescia 2002

In un volume di recente pubblicazione Michael Dummett ricostruisce l’evoluzione della filosofia analitica nel contesto della riflessione filosofica degli ultimi due secoli. Egli suggerisce di individuarne il carattere distintivo nel presupposto secondo cui è propriamente mediante una considerazione filosofica del linguaggio che si può rendere conto filosoficamente del pensiero. In tal senso, la stessa espressione “filosofia analitica della religione” non può che riferirsi alla totalità delle tendenze teoretiche che hanno applicato strumenti analitici al discorso religioso, che ne hanno cioè organizzato la comprensione attraverso l’analisi di quegli enunciati in cui la credenza di fatto si deposita. In una prospettiva filosofico-religiosa di tipo analitico, nota giustamente Micheletti, rientrano di conseguenza “la considerazione dell’uso specifico dei termini negli enunciati religiosi e delle relazioni logiche fra le asserzioni religiose e fra queste e altri tipi di asserzioni, la valutazione critica della possibilità di interpretare le asserzioni religiose come fattuali o […] come puramente espressive di atteggiamenti estetici o morali, la valutazione dei limiti e della legittimità stessa di tali rigide distinzioni in rapporto alla complessità della forma di vita in cui i concetti e le espressioni religiose trovano la loro applicazione”.
Nondimeno è ormai lontano il tempo in cui tema privilegiato di discussione era il mero status logico della credenza religiosa, da determinare con riguardo ai criteri fissati dall’argomento verificazionistico (secondo il quale per il fatto di sottrarsi alla verifica empirica, le asserzioni teologiche non sono asserzioni “fattuali”, vale a dire capaci di verità o falsità). E l’autore di questa agile e ben documentata trattazione ha buon gioco nel ricondurre il rinnovato interesse maturato in ambito analitico per gli argomenti teistici e i temi della teologia naturale proprio al superamento di certune premesse “dogmatiche” dell’analisi filosofica, quelle per intenderci derivate dal positivismo logico o più generalmente dal moderno fondazionalismo epistemologico. Beninteso, ovviamente la tipologia di analisi filosofica qui tematizzata è quella introdotta dal neoempirismo logico e applicata al discorso religioso da Alfred J. Ayer (Language, Truth and Logic, 1936) sulla scorta di Rudolf Carnap (Überwindung der Metaphysik durch logische Analyse der Sprache, 1932): gli enunciati religiosi non sono significativi sotto il profilo cognitivo perché non rientrano nelle uniche due categorie di enunciati accettabili, quelli verificabili empiricamente e quelli afferenti alle proposizioni analitiche della logica e della matematica. Ma Micheletti non tralascia di considerare in un quadro argomentativo unitario e coerente anche gli sviluppi successivi del dibattito analitico sul religioso, quelli che propriamente testimoniano del passaggio dall’iniziale e ampiamente aporetico argomento verificazionistico alla cosiddetta “obiezione falsificazionistica” di Antony Flew (la falsificabilità di un asserto è garanzia di significanza cognitiva). E tuttavia la ricostruzione prospettata in questo volume, lungi dal configurarsi in chiave puramente storiografica, indaga con rigore e ottima capacità di sintesi i più significativi plessi concettuali del dibattito logico-epistemologico sul religioso, proponendone penetranti interpretazioni. Così, valutando ad esempio il decisivo contributo di Flew, l’Autore non si limita a prendere in considerazione le tesi esposte nel celebre Theology and Falsification (1950); viceversa, ne accompagna la lettura facendo costante riferimento ai due cosiddetti “saggi retrospettivi”, attraverso i quali soltanto può profilarsi una intelligenza inedita della teoresi di Flew, basata cioè sulla ritrattazione che questi ha praticato a motivo delle puntuali obiezioni che da più parti gli sono state mosse (in particolare da Heimbeck e Plantinga).
Fruttuosa si dimostra inoltre la scelta dell’Autore di prendere le mosse dagli argomenti di maggiore critica indirizzati al discorso religioso. Fioriti dapprima nella più ampia cornice dell’interrogazione neoempiristica intorno alla possibilità di senso della metafisica e successivamente confluiti nella direzione di quello "scetticismo metateologico" legato all’obiezione falsificazionistica, essi intendono mettere radicalmente in questione il contenuto assertivo degli enunciati religiosi e teologici. Ma la consapevolezza del superamento di queste posizioni ostili alimenta un interrogativo attorno al quale ruota a ben vedere l’intera ricostruzione di Micheletti: è difficile comprendere se la neutralizzazione dell’originario scetticismo epistemologico abbia prodotto la rapida fioritura di nuove tendenze analitiche nel quadro del dibattito sul religioso, o ne sia piuttosto una conseguenza. L’interrogativo, che di fatto resta sullo sfondo della trattazione, introduce l’esposizione vera e propria di queste nuove tendenze, che l’Autore riconduce a tre distinti orientamenti teoretici (dei quali fornisce una attenta comparazione, persuaso che nella loro diversità essi condividano nondimeno molti presupposti): l’approccio neo-wittgensteiniano, sviluppato dai vari Rhees, Winch, Malcolm e Phillips, secondo cui concetti e asserti religiosi devono essere considerati unicamente a partire dal loro impiego nella forma di vita in cui si radicano; la cosiddetta “epistemologia riformata”, orientamento riconducibile a studiosi della teoria della conoscenza di formazione teologica calvinistica che fanno capo ai vari Plantinga, Alston e Wolterstorff e considerano “basilare” la credenza in Dio, ritenendo cioè che essa sia perfettamente razionale indipendentemente da proposizioni autoevidenti aggiuntive; la singolare fioritura di analisi e (ri)formulazioni di argomenti teistici, registrata negli ultimi decenni nel campo della teologia filosofica, con particolare riguardo al contributo di autori quali Swinburne, Kenny e Haldane.
Pubblicato in "Teoria" 2004/1