Rec. di Gian Luigi Paltrinieri, Kant e il linguaggio. Autocritica e immaginazione, Libreria Editrice Cafoscarina, Venezia 2009

A circa dieci anni dalla pubblicazione per i tipi di Carocci de L’uomo nel mondo. Libertà e cosa in sé nel pensiero di Immanuel Kant, Gian Luigi Paltrinieri torna a farsi interprete della pagina kantiana, interrogandone la «portata di senso e di verità» in uno studio di particolare raffinatezza ermeneutica. Se nel volume del 2001 egli si proponeva di «restituire respiro alle mosse del filosofo illuminista», perlopiù muovendo da una riconsiderazione critica della «distinzione tra fenomeno e cosa in sé, vero fulcro dell’intera filosofia kantiana», in Kant e il linguaggio l’attenzione è diversamente indirizzata, come il titolo denota, al «rapporto tra Kant e l’alium condizionante e indisponibile per eccellenza, ossia la linguisticità». Ma in modo affatto esclusivo o totalizzante. Lungi infatti dall’essere mosso da un interesse filologicamente delimitato, regionale per così dire, e dallo «sguardo monoculare» del cyclopischer Gelehrte (Refl. 2021, AA 16: 198.13), lungi cioè dal limitarsi a investigare uno specifico aspetto della filosofia critica non sufficientemente districato dagli esegeti, l’Autore asseconda da un lato la raccomandazione autenticamente ermeneutica di farsi «destinatari attivi di aperture di possibilità “sintattiche e semantiche” che vengono a trasformare e a ravvivare i codici interpretativi abituali e condivisi», di dare cioè «credito a un testo, ossia scommettere generosamente sulla possibilità che in esso dimorino aperture che inizialmente non possiamo prevedere e che trasformino il nostro modo di pensare, sentire e agire»; dall’altro è motivato dal duplice proposito di contribuire concretamente al «ridimensionamento dei tradizionali pregiudizi dell’ermeneutica nei confronti della filosofia kantiana»  e, più in generale, «di elaborare alcune buone ragioni per rendere condivisibile il convincimento che il kantismo – seppur  debitamente rivisitato – possa ancora valere come fecondo punto di riferimento ideale per l’attuale cultura etico-politica».
Consolidare tale convincimento costringe tuttavia a fare i conti con alcuni nodi aporetici. Uno di questi è certamente rappresentato proprio da quello sradicamento «dalla linguisticità e dal mondo dell’esperienza condivisa» che, coniugando scientificità e libertà critica, il criticismo sembra aver prodotto imboccando la via trascendentale. La questione del linguaggio si configura perciò assieme come un banco di prova filosofico, qui infatti «si misura gran parte della possibilità o impossibilità di tornare a Kant», e una sfida ermeneutica: quella di «cimentarsi in un vaglio della presunta o effettiva incompatibilità tra riconoscimento forte della linguisticità e impostazione trascendentale». Beninteso, l’obiettivo dell’A. non è quello di «spiccare dall’albero kantiano alcuni frutti per farne dei semi da utilizzare in tutt’altra direzione o contesto», né tantomeno, in modo parimenti strumentale, quello di «estrapolare qualche battuta isolata» dal corpus critico per  invalidare la (legittima) riserva – impugnata, a partire da Hamann e Herder, da tutti i “metacritici” di Kant – di una sottovalutazione dolosa del problema “linguistico”; né, ancora, attenuare il sospetto che l’intellettuale di Königsberg abbia voluto «insabbiare sotto una coltre di silenzio» una delle crepe teoretiche che più seriamente minacciavano la tenuta dell’edificio critico. Diversamente, l’ambizione del presente volume – che è diviso in due parti allo scopo di ricalcare le due dimensioni, una teoria dei segni e una teoria dei simboli, delle riflessioni kantiane sul linguaggio – è proprio quella di mostrare che impostazione trascendentale e riconoscimento della linguisticità, perlomeno di quella “simbolica”, lungi dall’essere reciprocamente incompatibili, si richiamano anzi vicendevolmente. L’idea è cioè che «almeno nel caso dei simboli metaforici, dalla base analogica, non si tratti solo di un oggetto su cui soffermarsi per ottemperare il compito professionale di completare un sistema filosofico, bensì di un bisogno intrinseco alla filosofia critica». A questa prima ipotesi di lavoro è strettamente connessa la seguente: indicizzare la diffidenza kantiana nei confronti di ogni «primato della linguisticità» in funzione della «questione della libertà di giudizio, intesa in un senso morale assai lato e dunque coincidente con la capacità umana trascendentale di sintetizzare necessarie condizioni di possibilità», del tutto pervasiva in Kant.
Bensì «parsimonioso ma non avaro» di spunti e di indicazioni, Kant non ha veramente «taciuto sul linguaggio». Sotto questo profilo non è perciò, come pure talora si è ritenuto, un «interlocutore silenzioso», sul quale occorra conseguentemente esercitare una qualche forzatura filologica. Anzi, ancorché in modo non sistematico e comunque in misura sottodimensionata rispetto alla gran parte dei suoi predecessori e dei contemporanei (l’influenza del linguaggio sull’articolazione del pensiero divenendo tra Sei e Settecento un tema ineludibile nell’elaborazione intellettuale, affermandosi vieppiù come «un modo filosofico-teologico e antropologico per saggiare e valutare la posizione dell’essere umano nella natura»), Kant si è cimentato direttamente con questo argomento in luoghi teoreticamente assai densi della propria produzione letteraria. E Paltrinieri non manca di attraversarli in un confronto trasversale e plurale, convocando interlocutori qualificati: da Leibniz a Chomsky, da Diderot a Gadamer, da Hamann e Herder a Strawson.
Beninteso, nei testi kantiani vi è evidentemente una modesta attestazione di elementi di “filosofia del linguaggio”, non v’è cioè una specifica “attenzione analitica” ai tratti generali del linguaggio (significato, riferimento, ecc.). Di più, il filosofo della Critica ha mancato l’occasione di articolare una puntuale elaborazione linguistica in almeno due nevralgiche circostanze, segnatamente all’altezza della determinante distinzione tra fenomeno e cosa in sé, «snodo portante dell’intera impostazione criticista», e dell’altrettanto fondamentale distinzione, profilata e valorizzata in modo perspicuo dall’A. lungo il limes semiotico-simbolico, tra diskursive, la sola evidentemente riferibile all’intelletto umano, e intuitive Erkenntnis. Né è pacifico liquidare l’obiezione sollevata in modo incisivo da Hamann nei termini di una dreifache Reinigung prodotta dal kantismo, o le stesse, affilate accuse indirizzate da Herder a una “filosofia barbaramente critica” che, dimentica della linguisticità e dell’eterno e vivificante «circolo di ratio e oratio», di ragione e discorso, allontana la ragione medesima dalla recettiva esperienza del mondo e anzi la amputa e impermeabilizza. «Trattasi di obiezioni che mantengono un alto grado di plausibilità», non manca di riconoscere Paltrinieri. Sennonché non colgono un aspetto decisivo – e in tal senso proprio Herder «inaugura un pesante e influente fraintendimento» che ha accompagnato la prima recezione della filosofia kantiana ma è documentato anche nella più recente letteratura critica; aspetto che è al centro della tesi veicolata dal presente volume e sedimentata nei suoi due capitoli centrali e più propositivi, dedicati a “Autocritica teleologica della ragione umana e realismo trascendentale” e “La deduzione linguistica di Herder e la sordità trascendentale di Kant”.
È senz’altro vero infatti che, benché la “rivoluzione critica” punti sul riconoscimento del carattere di condizionatezza di ogni nostra esperienza del mondo, non escluse le scelte morali o i giudizi di gusto, il criticismo sostiene poi in modo dogmatico l’incondizionatezza delle condizioni di possibilità; nel proprio ufficio «trascendentale di trascendere» mette cioè al riparo tali condizioni da ogni «condizionamento emprico e storico, postulando un’origine a priori degli schemi che ci permettono di giudicare, un’origine dunque purificata in primo luogo da qualsivoglia fattore linguistico e perciò anche da ogni influsso storico-temporale o pubblico e sociale». Com’è possibile per una filosofia critica presentarsi assieme come scienza e prescindere da ogni, costitutiva e radicale esperienza del linguaggio? trascendere cioè il legame «vivo quanto essenziale» che unisce umanità e linguisticità? È parimenti vero tuttavia che non soltanto «lo sguardo critico-trascendentale della filosofia kantiana corre consapevolmente il rischio di entrare in contraddizione con l’uso linguistico» ma soprattutto esso, lungi dall’appiattirsi sull’elemento della recettività e amplificare l’aspetto dell’ascolto «che ci rende originariamente relazionati, nella nostra interezza e profondità, ai fenomeni della realtà», rovesciando il banco (in un modo che forse disarticola ogni possibilità di interazione tra un purismo trascendentalista e un approccio informato dall’antropologia herderiana) riconosce che la possibilità di autonomia e libertà dell’io penso sia salvaguardata dalla sua sordità. «L’io penso trascendentale non è muto, ma sordo»; esso cioè preserva e consolida la propria autonomia e la potenziale universalizzabilità del proprio giudicare «tappandosi le orecchie»; è quella che, nell’unità empirica di pensiero e linguaggio, si configura come un’autentica «asimmetria» integralmente a carico dell’io pensante. È insomma proprio perché Kant intreccia la questione genealogico-trascendentale alla libertà critica che egli batte la strada di analisi e sintesi pure a priori, indipendenti dall’esperienza – anche quella linguistica. Del resto «il cuore pulsante del kantismo non consiste nell’astratta e tracotante pretesa di illuminare dall’esterno o dall’alto, attraverso prescrizioni che vengano da una voce fuori campo, impersonale e metastorica»; esso non è “avulso dal mondo reale” nel modo ossessivamente invocato dalle denunce metacritiche; il suo proprium consiste invece nel sottrarsi a «ogni imperio meccanicistico e monopolistico», a ogni condizionamento dal basso (o dall’alto, beninteso), affermando non già la propria estraneità al mondo quanto piuttosto la facoltà di «starvi dentro in modo libero».
Di fatto, attesa l’assenza di una filosofia del linguaggio vera e propria o di una Sprachkritik – che è kantianamente del tutto superflua, giacché “la condizione primaria del parlare” è l’attenzione e la capacità riflessiva di chi pensa – non mancano a parere dell’A. gli estremi di una “filosofia linguistica”, intesa con Searle come un «filosofare che assume come modo di procedere l’attenzione per i fenomeni di parola, in primo luogo ritenendo […] che i problemi filosofici siano problemi linguistici». E segnatamente tali estremi non mancano in relazione ai “simboli” metaforici, non cioè ai semplici caratterismi o designazioni dei concetti mediante “segni” sensibili ma piuttosto al modo di rappresentazione intuitiva, di esibizione (Darstellung). È questo l’oggetto della seconda parte del volume, il quale non casualmente fa perno sin dal sottotitolo sul tema dell’immaginazione. L’idea cioè è che il linguaggio simbolico-analogico consenta di aprire mondo, di portarsi ai limiti dell’esperienza sensibile nella quale pure come esseri finiti siamo evidentemente radicati, di fare di questi limiti dei «fecondi rapporti di frontiera»; in altri termini, di avanzare nelle acque dell’“oceano tempestoso” che circonda «l’isola della verità» esperita oggettivamente senza perciò ricadere nelle «parvenze» dialettiche. È in tal senso, si diceva dianzi, un «bisogno intrinseco» alla filosofia critica. Ma nel medesimo senso dalla nostra libertà di giudizio scaturisce altresì «il bisogno di articolare e elaborare attraverso un linguaggio metaforico il limite all’innominabile, ossia a quanto non è esperibile in senso conoscitivo-oggettivo»; e quando immaginazione e ragione lavorano assieme, producendo frutti linguistico-metaforici, «la presunta incompatibilità tra impostazione trascendentale e linguisticità non solo si dissolve, ma arriva a trasformarsi in reciproco e intimo legame».
Pubblicato in "Filosofia e Teologia" 3/2012.