Rec. di Alberto Pirni, Kant filosofo della comunità, Edizioni ETS, Pisa 2006

Al pari di ogni altro “classico” anche il pensiero di Kant «non cessa di consentire al suo lettore di attraversarlo seguendo percorsi ermeneutici sempre rinnovati». Le parole che Alberto Pirni affida alle pagine conclusive del suo Kant filosofo della comunità ne sintetizzano puntualmente i propositi: articolare e consolidare un’interpretazione “altra” del pensiero kantiano, calibrata su una nozione – quella di comunità – scarsamente attestata nella pur vastissima letteratura secondaria dedicata al filosofo della Critica. Si tratta di una interpretazione che intende inquadrare la filosofia (pratica) del Nostro con uno sguardo d’insieme, attraverso l’individuazione di «un identico humus tematico, riconducibile all’esigenza di pensare il legame che unisce e affratella ogni essere ragionevole in una chiave e in una prospettiva eminentemente etico-religiosa». Ciò consente, da un lato, di disinnescare la radicata abitudine di separare gli scritti kantiani di filosofia morale da quelli di carattere politico o filosofico-religioso; e dall’altro di esercitare la capacità di intercettare la feconda “saldatura” teoretica che lega la Fondazione alla seconda Critica – esercizio al quale è interamente dedicata la seconda parte del libro.
Promuovere «una piena valorizzazione dell’istanza comunitaria che soggiace e che, implicitamente, guida la compiuta elaborazione del pensiero morale del filosofo di Königsberg», è questo dunque lo specifico “percorso ermeneutico” che l’Autore si propone di svolgere mettendo a frutto acquisizioni di carattere teoretico e filologico che costituiscono il risultato di ricerche perfezionate nell’arco di un decennio e che hanno conosciuto una anticipazione soltanto parziale in altri scritti (per es. Il “regno dei fini” in Kant, Genova 2000). E proprio la nozione di regno dei fini, che viene puntualmente eviscerata nella prima parte del libro, occupa una funzione centrale nell’analisi dell’Autore. Persuaso che essa riveli «potenzialità interpretative non del tutto esplorate», egli non manca di segnalare come la letteratura critica non le abbia tuttavia riconosciuto quell’attenzione che pure avrebbe meritato. Beninteso, è senz’altro vero che nel quadro della produzione kantiana tale nozione non sia attestata in modo sufficientemente diffuso e perspicuo; tuttavia essa, evocando «nuclei concettuali variamente presenti nelle precedenti opere del filosofo», riveste una importanza strategica che, lungi dall’essere confinata alle pagine della Fondazione della metafisica dei costumi, si proietta bensì sull’intero sistema kantiano. Di più: la stessa Fondazione, piuttosto che costituire una tappa intermedia del complessivo Denkweg kantiano, organizza «un orizzonte teorico e una modalità argomentativa stabile nella molteplice riconfigurazione kantiana del problema etico-religioso».
La nozione di regno dei fini ha dunque una funzione nevralgica. È questa la tesi che l’Autore ha anzitutto necessità di documentare. Se infatti l’impronta “comunitaria” della morale kantiana era già stata riconosciuta da altri interpreti, l’originalità della proposta veicolata in Kant filosofo della comunità si fonda proprio sull’aver individuato nel Reich der Zwecke – «collegamento sistematico di diversi esseri ragionevoli mediante leggi comuni», secondo la definizione proposta in GMS 433 – la dimensione attraverso la quale soltanto è pensabile il «nesso morale-comunità». Tale nozione, come si chiarisce sin nelle battute introduttive del libro, esprime una funzione chiave e rivela una valenza duplice: se infatti da una parte, come prodotto della trattazione dell’imperativo categorico, riassume per così dire tutti gli elementi teoretici organizzati nella Fondazione, d’altra parte questa «totalità organizzata e coerente al suo interno», nella misura in cui implica un «collegamento sistematico» tra ogni essere ragionevole, configura un’autentica struttura comunitaria. Pirni pone così l’accento sulla maniera in cui, all’altezza della terza formulazione dell’imperativo categorico, «con il passaggio alla formula dell’autonomia» Kant coniuga la definizione formale dell’imperativo, cifra della sua universalità, con il contenuto della legge (ogni essere ragionevole come Zweck an sich selbst); sul modo cioè nel quale la volontà si fa autonoma e, lungi dal riconoscere un Bestimmungsgrund “esterno”, si fa «autolegislatrice» (selbstgesetzgebend). Il regno dei fini costituisce una conseguente derivazione della formula dell’autonomia e, solo, autorizza a praticarne una proiezione “comunitaria”. Esso, in altri termini, «completa e corona la dimensione individuale dell’imperativo innalzandola a quella collettiva» e consente perciò di concepire la «volontà autolegislatrice» come «universalmente legislatrice» (allgemein gesetzgebend).
«Il regno rappresenta e costituisce dunque […] una totalità (Ganzes) in cui […] obbedendo liberamente alla legge che si è dato – che è contemporaneamente condivisa da ogni altro – [ogni essere razionale] prescinde dalla propria particolarità e quindi riconosce tutti gli altri nella propria autonomia». Ma un essere razionale, precisa Kant (GMS 433), appartiene come membro (Glied) a tale regno quando vi si trovi «bensì come legislatore da un punto di vista universale, ma anche, al tempo stesso, sia sottomesso lui stesso a queste leggi»; vi appartiene, diversamente, come capo supremo (Oberhaupt) se, da legislatore (Gesetzgeber), non è tuttavia sottomesso alla volontà di nessun altro. È precisamente questa nozione di Oberhaupt, «perlopiù trascurata dagli interpreti», che nella opinione dell’Autore autorizza l’integrazione tra la prospettiva dischiusa dalla tematizzazione di un regno dei fini e una dimensione specificamente religiosa. Le due figure di componenti il regno – il Glied e l’Oberhaupt – rinviano infatti rispettivamente al soggetto agente autonomo, ossia il titolare di iniziativa etica che “legifera” assieme agli altri Glieder sottoponendosi (con essi) alle leggi che anche lui ha voluto, e a un soggetto altro, che adempie una funzione analoga ma «in una condizione totalmente incommensurabile». L’Oberhaupt è pertanto Dio, il quale nel “regno dei fini” svolge la funzione di garante della validità dell’ordine morale (autofondato); è cioè il «legislatore santo che suggella la legge morale confermandola nella sua validità assoluta e universale», assicurando – in una concezione teleologica del mondo come sistema dei fini – la congiunzione tra il regno della natura (di cui pure è Oberhaupt) e il “regno dei fini” (che è possibile solo per analogia col primo; GMS 433), nonché un orizzonte escatologico a una dimensione precipuamente morale.
Lo sforzo di conferire, in un’ottica ermeneutica di carattere comunitario, la massima centralità alla Fondazione e alla nozione di regno dei fini che ne occupa la Seconda Sezione, mette l’Autore di fronte alla necessità di verificare i termini del «passaggio» alla Critica della ragion pratica e la riformulazione dell’imperativo categorico che, accantonando la nozione di fine, Kant vi svolge. Passaggio che Pirni, che pure allontana in modo risoluto lo schema della «linea teorica evolutiva», analizza nei termini di una «ۛinnovata continuità». Emerge allora nella novità terminologica del passaggio dal regno dei fini al sommo bene una forma di continuità concettuale? Quella che si sviluppa nella trattazione sul sommo bene è, con le debite distinzioni (e integrazioni), la medesima impronta noetica che informa la nozione di regno dei fini? La dimensione comunitaria strutturalmente connessa alla prospettiva del sommo bene può perciò rinviare a quel «primo paradigmatico contesto di elaborazione del concetto di comunitàۛ» che, nella forma del regno, era costituito dalla Fondazione? A questi interrogativi l’Autore, che non manca di indagare approfonditamente la larga convergenza concettuale tra il regno dei fini e il regno dei costumi all’interno della Dialettica della ragion pura pratica, fornisce una risposta affermativa, invocando la tensione concettuale e il «profondo legame prospettico» che – ancorché al netto delle loro irriducibili specificità (la questione della felicità; la dottrina del sommo bene e la «dimensione teonoma» che essa evoca; ecc.) – attraversa questi due scritti siccome altri testi collaterali. La «convergenza di fondo» tra regno dei fini e sommo bene è così garantita dalla protratta riproposizione di una “figura del divino” in entrambi i contesti o, se si vuole, da quella saldatura tra dimensione morale e religiosa che caratterizza la riflessione kantiana. Lungi però dall’istituirsi nella dimensione “del regno dei fini in vista del sommo bene” o di quest’ultimo come ampliamento dell’originaria prospettiva evocata dalla Fondazione – precisa l’Autore – tale convergenza è suggerita dalla profonda contiguità delle due nozioni all’interno della complessiva prospettiva del regno di Dio, che si apre all’uomo nella «armonia delle leggi di natura con quelle della libertà» (KpV 145-46). In altre parole, se il regno dei fini può essere pensato in continuità con il sommo bene, lo può soltanto nella misura in cui sia la prima che la seconda nozione possono essere pensate come altrettante esplicitazioni e raffigurazioni del regno di Dio. Tra queste due nozioni e il regno di Dio si realizza cioè una “triangolazione”, un collegamento vale a dire «tra prospettive in parte differenti e tuttavia ugualmente racchiuse in un complessivo orizzonte di segno comunitario ed etico-religioso verso il quale, in ultima istanza, l’agire e lo sperare dell’uomo si trovano strutturalmente indirizzati».
Pubblicato in "Filosofia e Teologia" 2/2010 e "Persona" 2/2011.