La prefazione alla seconda edizione della Religione nei limiti della sola ragione si segnala per la celebre teorizzazione del modello dei “cerchi concentrici”. È l’immagine con la quale Kant intende rappresentare la dialettica che nell’ambito della religione oppone l’elemento storico della rivelazione al suo più ristretto «nucleo razionale». Il «filosofo studioso di religione» – asserisce – in qualità di «puro insegnante di ragione» e a differenza del teologo biblico, deve mantenersi all’interno di questo nucleo razionale facendo astrazione da ogni esperienza empirica e procedendo per semplici princìpi a priori. Monito coerente con quanto già argomentato nella prefazione alla prima edizione di questo stesso scritto: «Alla teologia filosofica – vi si leggeva – bisogna lasciar completa libertà di estendersi tanto lontano quanto lo comporta la sua esigenza scientifica, purché essa resti nei limiti della sola ragione […] senza estendere le sue proposizioni alla teologia biblica».
Dello stesso avviso era del resto lo stimato Michaelis, l’«uomo ben versato nelle due materie» di cui Kant non manca di fare menzione in queste dense pagine prefatorie. Michaelis non è però il solo intellettuale sul quale egli qui richiama l’attenzione. Kant cita infatti anche il «celebre dottor Storr di Tubinga» e lo fa rammaricandosi di non esser riuscito a leggere per tempo quelle Annotationes quaedam theologicae ad philosophicam Kantii de religione doctrinam che il massimo esponente della “scuola teologica di Tübingen”, esaminando l’opera kantiana «con l’abituale acutezza e al tempo stesso con una diligenza e una equità degne dei più vivi ringraziamenti», aveva redatto per l’esame dei candidati alla licenza in teologia della locale università. Assieme e prima di Storr anche Johann Friedrich Flatt, il suo più qualificato allievo, si era già confrontato con la pagina kantiana guadagnandosi la considerazione del filosofo di Königsberg, il quale in una celebre nota della Vorrede alla seconda Critica non avrebbe infatti mancato di tener conto dei rilievi critici che, attraverso una recensione, questi aveva indirizzato alla Fondazione della metafisica dei costumi all’indomani della sua pubblicazione. Questa recensione e le Annotationes di Storr, accompagnate da un saggio di Flatt del 1792 in cui la filosofia kantiana è confrontata con la dottrina cristiana, vengono offerti all’attenzione del pubblico italiano nella presente edizione curata da Enrico Colombo.
Nelle Observationes del 1792 Flatt si propone di affrontare il delicato problema del rapporto tra scienza filosofica (segnatamente, la filosofia kantiana) e dottrina cristiana, rapporto che a suo parere determina nella maggior parte dei casi un trattamento irriguardoso nei confronti di quest’ultima. «Ci sono infatti alcuni filosofi che, conformando la dottrina di Cristo e degli Apostoli ai princìpi di Kant, […] attribuiscono alla cieca a quelli cose che sono tipiche di questo, e sopportano a stento proprio la religione cristiana». È indubitabile – asserisce Flatt – che, diversamente dalle parti della filosofia kantiana di carattere specificamente teoretico, in quelle di argomento religioso o morale vi siano, tra le altre, anche dottrine che «o sono già comprese nella religione cristiana o le sono unite in modo molto conveniente o possono comunque esserle armonizzate» (§ 2). Ma tale «armonia» non è così perspicua come pure potrebbe sembrare, sicché vale la pena di verificarne la natura. Beninteso, il teologo tedesco affronta la questione in modo assai risoluto e già dai primi paragrafi giunge a quello che potremmo definire il “cuore del problema”, mettendo cioè in discussione «il principio [stesso] che Kant segue nel dimostrare i cardini fondamentali della religione». Nessuno dubita – osserva – che l’argomento morale su cui fa leva la convinzione kantiana della esistenza di Dio sia abbastanza saldo; tuttavia non si comprende perché «la dottrina cristiana di Dio e dell’immortalità dell’anima debba essere da qui derivata», tanto più che non si dà «alcuna traccia certa, nei libri del Nuovo Testamento, di un qualsivoglia argomento etico-teologico». Se viene meno il proposito kantiano della teologia morale – prosegue – non pare proprio che vengano meno le ragioni sufficienti a dimostrare l’esistenza di Dio (§ 4) o dell’anima immortale (§ 5), nella misura in cui non già quegli argomenti teoretici – adatti perlopiù a informare «una fede dottrinale, come la definisce Kant» stesso – ma «la sola autorità di Cristo che promette la vita eterna, confermata da fatti così evidenti e veramente divini, ha forse la forza di donarci quella certissima speranza di immortalità».
Occorre senz’altro fare due considerazioni. In primo luogo, vale forse la pena ricordare che già nella sua celebre recensione alla Fondazione della metafisica dei costumi, che rivela motivi di chiara continuità con le successive Observationes (per es. nel giudizio piuttosto netto sulla Freiheitslehre trascendentale), Flatt aveva centrato un nodo nevralgico del kantismo, additando l’aporia costituita dalla relazione tra religione e morale, e segnatamente dalla deduzione della teologia naturale dalla morale. «Ma non sappiamo appunto spiegarci – aveva ammonito – come Kant possa ascrivere alla pura rappresentazione del dovere un influsso così grande sul cuore umano poiché egli, nella deduzione della teologia naturale dalla morale, si serve di ciò come di un fondamento ché, senza Dio e un mondo per noi non visibile ma sperato, la splendida idea della moralità è oggetto di plauso e di meraviglia ma non è movente dell’intenzione e del suo utilizzo». Se, detto in altri termini, il sentimento puramente razionale di rispetto della legge non è sufficiente a rendere questa il solo movente dell’azione, occorre che essa sia rappresentata come se fosse ordinata da Dio. In questo modo pare profilarsi un circolo vizioso tra la rappresentazione di Dio e la legge stessa, il quale può concorrere a detrimento dell’autonomia di quest’ultima. È un circolo vizioso che, come noto, Kant ritiene di poter risolvere asserendo che la legge fa leva sulla ammissibilità di concetti metafisici non già rispetto alle proprie intrinseche condizioni di possibilità ma rispetto alla rappresentazione dei fini da raggiungere (uniti nel concetto di sommo bene); mentre Flatt, diversamente, ritiene che la possibilità stessa di una religione – secondo una prospettiva critica – «si gioca quando ci si possa pronunciare sulla realtà ontologica» (p. 11) di quei concetti metafisici e cioè non solo sulla plausibilità di una Postulatenlehre ma sulla realtà dei concetti lì rappresentati.
In secondo luogo, si può certamente rilevare che il riferimento che fa Flatt alla «sola autorità di Cristo» richiama alla mente lo schema argomentativo e il comune retroterra delle Annotationes che Storr, il suo maestro e caposcuola, pubblicherà a distanza di qualche mese. Esse si segnalano per lo sforzo di risolvere le “lacune” della ragione teoretica, e di contenerne vieppiù «la vuota arroganza e la fanatica audacia», mediante l’indagine storico-critica dei testi biblici (§§ XV-XXI). Condividendo una preoccupazione piuttosto diffusa tra i suoi contemporanei, quella secondo cui ci si possa opporre alla teologia biblica impugnando argomenti morali «degni, se ben usati, di grande efficacia» (§ III), e se ne possano quindi confutare i precetti in forza di asserzioni di fatto indimostrabili, Storr esercita una considerevole «correzione fideistica» (p. 12) sul trascendentalismo kantiano, indicizzandone per così dire il soggettivismo al dato storico enunciato dai libri sacri e alla dogmatica teologica la quale ne costituisce una forma di razionalizzazione. Atteso che «gli insegnamenti teoretici della Bibbia sulle cose divine» non possano esser negati secondo i princìpi della filosofia critica (§ V), Storr elabora un radicale mutamento di paradigma spostando l’asse da una hypothesis teoretica di impronta kantiana a quella biblica in senso stretto e opponendo con forza e non senza polemizzare alla fede storica dei teologi, alla quale è ingiustamente imputato di essere ingenua e fondata sul sentimento, la «fede cieca e da schiavi», quella cioè «di cristiani che non capiscono le lingue necessarie per l’interpretazione e non hanno le conoscenze critiche e storiche che, da un lato, sono richieste per interpretare il Nuovo Testamento e, dall’altro, sono la prova e la difesa della loro autorità» (§ XXI). Mediante la coniugazione del piano della interpretazione filosofica (sul quale propriamente si muove Kant) con quello della interpretazione biblica, Storr ritiene di fatto di poter modificare la dottrina stessa dei postulati, che rinvierà così a realtà non soltanto pensabili – come si diceva dianzi – bensì conoscibili. Ma se è dimostrata la realtà metafisica dei postulati (che in prospettiva critica sono come è noto condizione del concetto di sommo bene, quale conciliazione di felicità e virtù), il sommo bene stesso non costituirà più una “idea regolativa” della ragion pratica ma, posto da Dio, configurerà una prescrizione eteronoma. E se, come il Curatore di questa edizione non manca di osservare, il primato rimane alla storicità di Cristo e la ragione perlopiù costituisce un modo per accettare le dottrine cristiane che vi si adattano, viene meno quella necessità di «unità della esperienza morale e religiosa» che, ammettendo la deduzione della teologia dalla morale, Kant aveva affermato.
Vale la pena, in conclusione, sottolineare il significativo ruolo esercitato dalla scuola teologica di Tubinga e dai suoi esponenti, di cui in questo agile volume si raccolgono tre significativi documenti, rispetto al dibattito filosofico del tempo e culturale in senso ampio, e in ispecie rispetto alla stessa Rezeptionsgeschichte della filosofia critica. Nel difendere l’edificio dogmatico di fronte all’avanzata del criticismo infatti essi ne faranno propri i concetti, come rileverà acutamente Hegel, permettendo così una più ampia e trasversale diffusione delle idee filosofiche.
Pubblicato in “Annali di Storia dell’Esegesi” 27/1 (2010).